Il giovin Signore: Gian Galeazzo Serbelloni

di Laura Tirelli

L’interesse dimostrato per la storia dei Serbelloni, signori di Taino,  ci ha indotto a ricercare altre notizie su questa famiglia.
Poichè ricorre quest’anno il bicentenario della morte del poeta Giuseppe Parini, avvenuta il 15 agosto 1799, ci pare questa l’occasione per ricordare un personaggio della famiglia Serbelloni, Gian Galeazzo, che con il Parini ha un collegamento e, contemporaneamente, riportare alla memoria dei nostri lettori alcuni versi di uno dei grandi della letteratura italiana.
Il Parini poeta, la cui opera è piena di sottile ironia, è animato da un gran soffio di umanità, da una grande comprensione dei dolori e delle ingiustizie sociali, francamente denunciate e sferzate come nessuno prima di lui aveva fatto nella poesia italiana. Nelle campagne, stupendamente descritte e nella vita campestre, il Parini, per primo, sentì quanto fosse triste ed ingiusta la condizione servile dei contadini del suo tempo, oppressi da padroni duri ed orgogliosi, situazione questa che certamente era vissuta anche dai contadini tainesi, quasi tutti coloni e massari alle dipendenze della nobile famiglia Serbelloni, che possedeva vaste terre e numerosi immobili in Piemonte, in Lombardia e nella Repubblica Veneta.
E proprio coi Serbelloni il Parini fu in stretto rapporto.
Il poeta, nato a Bosisio in Brianza nel 1729 da poveri genitori, una volta terminati gli studi e presi gli ordini sacri, nel 1754 venne assunto quale precettore dalla famiglia Serbelloni e vi rimase fino al 1762 quando protestò per un sopruso della madre dei suoi allievi (la quale aveva schiaffeggiato la figlia del maestro di cappella del palazzo) e questa lo mise alla porta.
Gli anni trascorsi presso i Serbelloni ed altre altolocate famiglie, come i Borromeo, gli fecero conoscere da vicino lo stile di vita, i vizi e i difetti dei giovani nobili milanesi della sua epoca. Da questa sua esperienza nacque “Il Giorno”, poemetto satirico in versi sciolti, diviso in quattro parti: Il mattino, Il mezzogiorno, Il vespro, La notte, scritto intorno al 1760.
Il Parini descrive ironicamente la giornata del “Giovin signore”, con tutte le vane e biasimevoli occupazioni e ridicole preoccupazioni del personaggio. Ne esce il ritratto di un individuo frivolo, vanitoso, incosciamente buffo e crudele nello stesso tempo. In antitesi a quella ricca società molle e vuota che il poeta finge di celebrare, risalta la vita dei semplici, la famiglia contadina, l’artigiano laborioso.
Da “Il Mattino”

“………………………………
Sorge il Mattino in compagnia dell’Alba
Innanzi al sol che di poi grande appare
Su l’estremo orizzonte a render lieti
Gli animali e le piante e i campi e l’onde.
Allora il buon villano sorge dal caro
Letto cui la fedel sposa, e i minori
Suoi figlioletti intiepidir la notte;
Poi sul collo recando i sacri arnesi
Che prima ritrovar Cerere, e Pale
Va col bue lento innanzi al campo, e scuote
Lungo il picciol sentier da’curvi rami
Il rugiadoso umor che, quasi gemma,
I nascenti del Sol raggi rifrange.
Allora sorge il Fabbro, e la sonante
Officina riapre, e all’opre torna
L’altro dì non perfette, o se di chiave
Ardua e ferrati ingegni all’inquieto
Ricco l’arche assecura, o se d’argento
E d’oro incider vuol gioielli e vasi
Per ornamento a nuove spose o a mense.

(poi rivolgendosi al “Giovin Signore”)

Ma che? tu inorridisci, e mostri in capo,
Qual istrice pungente, irti i capegli
Al suon di mie parole? Ah non è questo,
Signore, il tuo mattin. Tu col cadente
Sol non sedesti a parca mensa, e al lume
Dell’incerto crepuscolo non gisti
Jeri a corcarti in male agiate piume,
Come dannato è a far l’umile vulgo.
A voi, celeste prole, a voi concilio
Di Semidei terreni altro concesse
Giove benigno: e con altr’arti e leggi
Per novo calle a me convien guidarvi.
Tu tra le veglie, e le canore scene,
E il patetico gioco oltre più assai
Producesti la notte; e stanco alfine
In aureo cocchio, col fragor di calde
Precipitose rote, e il calpestio
Di volanti corsier, lunge agitasti
Il quieto aere notturno, e le tenebre
Con fiaccole superbe intorno apristi,
………………………………”
Il “Giovin signore” che trascorreva le notti tra “le veglie e le canore scene” e “il patetico gioco” è una figura nata nella fantasia del poeta anche se si racconta che, essendo questa immagine molto realista, il duca di Belgioioso, credendosi ritratto a vivo nell’eroe del poema, facesse bastonare il povero autore, onde poi, già sofferente di problemi alle gambe, rimase zoppo per tutto il tempo che visse.
I giovani nobili dell’epoca pariniana godevano di notevoli privilegi e non è strano quindi che il poeta li definisse “celeste prole”. Di questa “dorata elite” facevano parte anche i figli del duca Gabrio Serbelloni, feudatario di Taino. In particolare nel “concilio di Semidei terreni” entrò il primogenito, Gian Galeazzo, nato nel 1744, sposatosi nel 1771 con Teresa di Castelbarco, cognata della pariniana “Nice”, che divenne nel 1774, per la morte del padre, il capo della sua casata ed erede di un patrimonio immenso. Su di lui ebbe rilevante influenza la madre, Vittoria Ottoboni Boncompagni, nobildonna colta e spiritosissima, nata a Roma in una ricca e potente famiglia di origine veneta, discendente in linea retta da uno zio di papa Alessandro VIII (1689-91). Il nome della duchessa Vittoria Ottoboni Serbelloni è entrato nella storia della letteratura italiana per i suoi rapporti con Pietro Verri e con il Parini stesso. Ospitò nel suo salotto i più celebri e rinnomati personaggi del suo tempo e sostenne la “carriera politica” del figlio che, dopo la morte del padre, fu nominato principe da Papa Braschi, Pio VI.
Gian Galeazzo era un uomo di bell’aspetto,”un cavaliere amabile, pieno di talento, di grazie e scevro da quei pregiudizi che tanto riescono incomodi alle oneste ed amichevoli società” dice di lui in una lettera Caterina Dolfin Tron, procuratessa di San Marco che ebbe con il Serbelloni una fitta corrispondenza tra il 1783 e il 1788. Fu però anche un uomo vanitoso e vacuo, amante della vita mondana, dei salotti alla moda e delle belle donne. Vantò numerose avventure amorose in tutte le città dove i suoi affari lo chiamarono. Impersonò certo lo stile del “Giovin signore” pariniano, tuttavia fu anche attento ai nuovi fervori intellettuali e alle istanze di “libertà” che venivano da oltralpe. Si interessò e prese parte alle vicende politiche del suo tempo. Gian Galeazzo Serbelloni è infatti noto specialmente per la parte che ebbe nelle vicende di Milano e della Lombardia dopo la conquista di Napoleone. Fu lui che il 10 maggio 1796 si recò ad offrire al Generale Bonaparte le chiavi della città e lo ospitò nel palazzo Serbelloni. Fu il primo presidente della nuova Municipalità milanese, a cui partecipò anche il Parini, poi andò a Parigi in rappresentanza della “nazione lombarda” e ne tornò con Giuseppina Beauharnais che pure ospitò nel suo palazzo milanese che divenne il centro dei festeggiamenti in onore della moglie di Napoleone e il luogo d’incontro dei potenti.

Nel 1797 Gian Galeazzo Serbelloni fu nominato primo presidente della Repubblica Cisalpina creata il 29 giugno di quell’anno con la riunione della Cispadana alla Repubblica lombarda a cui, nel mese successivo, furono aggregati i popoli di Ferrara, di Bologna e della Romagna. Mantenne questo incarico solo pochi mesi (nel Direttorio esecutivo a lui subentrò, il 13 novembre, il bresciano G.B.Savoldi) Fu poi ambasciatore a Parigi e deputato ai Comizi di Lione del 1802 (1). Morì pochi mesi dopo il suo ritorno in patria, il 7 maggio 1802, lasciando un immenso patrimonio che fu spartito in parte tra i fratelli (il fratello minore, conte Marco, aveva già ereditato nel 1774 il feudo di Taino) e l’unica figlia, Luigia, sposata al marchese Lodovico Busca Arconati Visconti, i cui discendenti sono ancora i proprietari del bellissimo e storico palazzo Serbelloni in corso Venezia a Milano, che ospitò Napoleone e Giuseppina, oggi sede del Circolo della Stampa.
Va detto, per dovere di cronaca, che Gian Galeazzo Serbelloni e gli altri politici della Cisalpina non si distinsero come amministratori rigorosi e capaci: grassazioni, malversazioni, disordini, tumulti furono all’ordine del giorno in tutto il territorio, mentre una soldataglia invadente e un’ufficialità sfrenata taglieggiava il paese e imponeva contribuzioni intollerabili alle Municipalità. Il saccheggio delle finanze pubbliche e private fu tale che Napoleone stesso ne fu inorridito.
A metà luglio del 1801, il Primo Console ricevette alla Malmaison il giurista Aldini e Gian Galeazzo Serbelloni, quali ambasciatori della seconda Repubblica Cisalpina, e si scagliò contro il Comitato di governo in carica con espressioni di estrema violenza
“Non si commettono che bestialità e si ruba a precipizio”, disse, ” Non avete fatto che sciocchezze. Questa genia, nata in uno stato mediocre, vuol straricchire a spese pubbliche, profittando del suo posto…Quanto sono rari gli uomini in Italia! Su 18 milioni ne vedo appena due: Dandolo e Melzi”.
L’egoismo, la superficialità e la mancanza di valori negli uomini che formavano la classe dirigente della fine del secolo XVIII fu duramente denunciata dal Parini, ma, se guardiamo alla storia, anche recente, del nostro paese non possiamo purtroppo affermare che i suoi posteri ne compresero la lezione.

(1) I Comizi di Lione sancirono la costituzione della Repubblica italiana, voluta da Napoleone.dopo la battaglia di Marengo
Il 4 gennaio 1802 seicento deputati cisalpini, con moglie e figli, provenienti da ogni angolo della repubblica, si raccolsero a Lione. Erano presenti i nomi più illustri dell’epoca. “Gli italiani” scrive un contemporaneo “erano compiaciuti di mettere in mostra davanti alla Francia i tesori della loro civiltà”. C’era Alessandro Volta che l’anno prima aveva presentato a Napoleone la sua famosa pila; c’era l’astronomo Barnaba Oriani, il matematico Cagnoli, lo storico Savioli, poi poeti, artisti, medici, economisti, giuristi famosi e, tra loro, Gian Galeazzo Serbelloni.

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